A PIEDI NUDI NELLA STORIA

E’ il pomeriggio di sabato 26 aprile, sono di ritorno da Capo Miseno. Ho ancora indosso l’orsetto di polartec ed una strana sensazione di sabbia e salsedine sui piedi nudi. Tra le mani una tazzina di caffè nero e bollente ed il programma del “premio Artiglio” che si svolgerà tra alcuni giorni a Viareggio, in concomitanza con l’annuale riunione dell’ Historical Diving Society. A volte la vita ci riserva delle stranezze, sorprendendoci con intrecci di imprevedibili circostanze simili al disegno di una mente superiore. Sto osservando delle vecchie fotografie color seppia raffiguranti i palombari dell’artiglio. In una, i palombari accanto ad una carico di zanne d’elefante prelevate da un antico relitto; in un’altra, Alberto Gianni che si sta calando nella “Torretta Galeazzi”. Non posso fare a meno di ammirare il coraggio di quell’uomo che si sta per immergere con quel cilindro sigillato (antesignano degli scafandri rigidi) a oltre 100 metri di profondità sul relitto dell’Egypt, nelle gelide e scure acque del nord. Sono così concentrato che quasi non sento il telefono squillare. E’ Rizia Ortolani, una cara amica di Roma nonché subacquea appassionata di relitti. “ Ciao Giovanni, sono Rizia hai un po’ di tempo?” – “ Ciao Rizia, che sorpresa! Dimmi pure! ”- “ Ti andrebbe di fare parte di una spedizione su un sommergibile della seconda guerra mondiale?“ - “ Come? E’ uno scherzo? “ – “ No, non è uno scherzo. Allora ti andrebbe? “ – “ Il Papa crede in Dio? Che domande fai Rizia……ma di che parli?“. Sono sorpreso, non per l’ipotesi di una spedizione in se, cose a cui Rizia non è nuova, ma per il nome pronunciato: Velella! Un nome che è sospeso tra realtà, immaginazione e leggenda. Una storia crudele come tutte le storie di guerra, ma che è anche piena di mistero. Ho sentito parlare diverse volte di questo sommergibile, affondato proprio nelle acque Campane. Nessuno sa con precisione dove sia; come uno scherzo del destino, sembra non voglia farsi trovare, quasi a proteggere il mistero del suo affondamento. Come le navi fantasma della tradizione marinaresca, è periodicamente tornato alle cronache nel tempo. Siluri di Sua Maestà britannica ripescati con le reti, strani ritrovamenti in fondo al mare, sporadiche e incerte apparizioni sugli scandagli, reti straziate come da rasoi affilati fanno parlano di esso. Un mistero fitto e lungo quasi 70 anni. In parallelo, una commovente e ostinata storia: quella dell’ANMI di S. Maria di Castellabate al fianco dei membri dell’equipaggio scampati all’affondamento e delle famiglie dei marinai morti. Ed è di questo che Rizia mi parla compiutamente, delle conversazioni udite in merito all’archivio storico della Marina in Roma, del primo approccio con l’Associazione marinai, di come era avventurosamente nata l’idea di questa missione, prima concreta occasione di mettere un punto fermo su questa lunga vicenda. Così, eccomi coinvolto in maniera altrettanto avventurosa nella vicenda. Terminata la conversazione, mi accorgo che una strana agitazione si è impadronita di me. Abbasso lo sguardo e ho persino l’impressione che i palombari della foto mi stiano sorridendo. Mi viene da ridere nel ricordarmi di una frase di un marinaio della Lobra, la cui barca è frequentata abitualmente da sub. Quando maldestramente piegai una tavola della sua barca puntò il dito verso di me e disse serissimo: “voi subacquei siete sempre in ebbrezza!“.
Inutile negarlo, queste storie sono come il miele e noi le mosche. Ed eccomi, così, appena due settimane dopo, per la precisione il 13 di maggio, giù in rada a S. Nicola al mare nei pressi di punta Licosa. E’ poco dopo l’alba, in lontananza un furgone bianco con una scritta CO.L.MAR . Arrivo sul molo, ci sono Rizia con il presidente dell’ANMI maresciallo Carlo Mileo ed alcuni altri membri, l’ing. Barbagelata ed un suo collaboratore. Dopo che Rizia mi ha presentato, salgo a bordo del peschereccio con cui usciremo e saluto il comandante. Si crea subito una cordiale atmosfera; siamo tutti impegnati a caricare il delicato e ingombrante materiale scaricato dal furgone. Ultimo a salire a bordo: il Side Scan Sonar, custodito in una grande e robusta cassa. La decisione di esaminare il Velella con una accurata scansione laterale è nata dall’esigenza non solo di sapere con certezza se quello che è ultimamente ritenuto il probabile relitto lo sia davvero, ma anche dall’avere un quadro preciso dello stato dei luoghi. L’atmosfera è carica di tensione: non è quella di una battuta di pesca o di una gita in mare. Nella plancia, ormai invasa dalle attrezzature elettroniche di complemento al sonar, si lavora febbrilmente. Fuori, sui volti dei marinai sguardi tesi, carichi di aspettative. A me e Rizia il compito di documentare le operazioni con riprese fotografiche e video. Una fresca brezza ci accompagna e ci da sollievo dal sole caldissimo nelle due ore di trasferimento sul punto in mare, situato molto al largo. Individuato il probabile relitto, si appronta il campo per la scansione del sonar. Una grande tensione si libera quando appare sul tracciato il rilievo prodotto dalle onde laterali del sonar che naviga al traverso del relitto a oltre cento metri di profondità: è un sommergibile, spezzato probabilmente nella sezione poppiera. Ho osservato i volti dei marinai ed ho percepito una profonda commozione, un’ emozione che solo una profonda empatia può giustificare. Vado sul quarto di prua, ho bisogno di stare qualche istante da solo a guardare il mare aperto. Sotto di noi c’è molto più di un semplice relitto. Ero a piedi nudi quando sono entrato in questa storia, lo sono adesso ed è così che voglio continuare a camminare e immaginare : come un bambino sulla spiaggia, pieno di meraviglia di fronte al mare immenso.


Giovanni Rossi Filangieri


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